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8 novembre 2013

"Il Corpo"


IL  Corpo
 Mary Grace Ovedi

 
"Il Corpo" -
Short Tale by Mary Grace Ovedi -

 Music
"Weightess"  "The Great Plain"  "Sunset Door"
(Tubolar Bells II)
by Mike Oldfield
 
             Mi affacciai alla finestra e lo vidi.
         Pensai fosse addormentato tanto la sua posizione era naturale e quel vago pensiero che si era posato incosciente su di lui si rivolse altrove.

Mi affaccendai in qualcosa d’altro e dedicai la mia attenzione 
a occupazioni più materiali e contingenti. L’applicazione manuale mi concentra e mi cattura completamente. I pensieri, remoti rimangono relegati in secondo piano, lavorando in sordina e non disturbando 
i miei movimenti e le mie azioni.

         Probabilmente quella visione rimase latente, sin da quel primo momento, nella mia mente ma io non l’ascoltai, non la guardai, 
non la focalizzai, non la memorizzai 


 
 


        Lo vidi ancora, il giorno dopo ed il giorno dopo ancora, 
ma ugualmente, con la solita distrazione, senza soffermarmi o riflettere su ciò che vedevo.
         Lui era lì, nella medesima posizione. Immobile, apparentemente addormentato.
Nessun pensiero cosciente attraversava la mia mente: 
quell’immagine apparteneva semplicemente al panorama, 
all’insieme, alla quotidianità.
Non risaltava, non stonava, in ciò che mi circondava.
Faceva parte della vita, quella che distrattamente ogni giorno mi scorreva davanti agli occhi, monotona e inalterata.
I soliti gesti, la solita routine, gli stessi medesimi movimenti si ricalcavano ogni giorno, come su carta carbone, tali e quali a quelli del giorno prima ed a quelli del giorno prima ancora.
E lui continuava a rimanere lì, come addormentato.
La mia mente, inconsciamente, lo aveva catalogato così: 
“addormentato” e lo aveva lasciato lì a continuare a dormire, senza porsi alcuna domanda, senza alcuna curiosità per quel sonno ininterrotto 
ed innaturale, che non doveva finire mai.
Dentro di me nessun pensiero razionale scaturiva alla sua vista: 
lui semplicemente ed innocuamente stava lì, non dava fastidio 
a nessuno, non attirava l’attenzione di nessuno, non mancava a nessuno


Composto,  immobile, se ne stava in quella sua posizione naturale, dignitosa, quasi artistica. Neanche l’avesse provata e scelta tra tante. Aveva del poetico. Era soave, delicata. 



Quando finalmente la mia vista esteriore lo focalizzò fu perché vidi 
il movimento del vento che lo sfiorava e muoveva leggero e delicato quello che era destinato a rimanere fermo  e immobile bloccato nel tempo.



E un leggero brivido mi percorse, come se quel vento fosse passato 
sul mio corpo e m’avesse sfiorato con le sue dita invisibili.

Sentii il suo tocco e mi immedesimai nel corpo.
Sentiva anche lui quel che sentivo io o le dita del vento gli erano indifferenti?
Una raffica più forte del vento, quasi in risposta alla mia domanda impossibile, lo sospinse e lo smosse un po’ di più ed io ancora provai 
il brivido tra i capelli, sulla pelle. 
Nell’anima.
Avevo visto: gli occhi avevano finalmente trasmesso al mio cervello l’immagine di ciò che era davanti a me.
   

Un corpo inanimato, immobile, meraviglioso nella sua bellezza e dignità, ma decisamente morto. Non addormentato, 
come inconsciamente avevo voluto credere: ma morto.
Me lo aveva confermato il vento.
Me lo aveva fatto sentire a pelle, trasmettendomi 
l’emozione del brivido, quell’emozione che era invece passata sul corpo immobile, senza riscontro, senza suscitare passione, senza generare vitalità: il corpo era rimasto immobile, meraviglioso e dignitoso nella sua posa statuaria.
Insensibile. Inerte
 

La mia anima tremò in quel momento, non per il vento, non per il brivido, ma per il vento e per il brivido che il corpo non percepiva.
Tremò per la morte, per l’immobilità, per l’indifferenza con cui 
il corpo lasciava che il vento lo sfiorasse, lo scuotesse, gli girasse intorno senza che lui gli si opponesse, senza che lui si proteggesse.
Tremò per l’immotezza, per la calma, per la pace con cui il corpo restava lì, giorno dopo giorno, sotto la pioggia, sotto il sole, sotto le stelle e la luna, senza muoversi mai, senza cambiare mai la sua poetica posizione, senza mutare la sua soave bellezza, senza opporsi mai al tempo.
Tremò per lo sgonfiarsi, il rattrappirsi, lo sfaldarsi, il deteriorarsi di quel corpo, tremò per l’appiattirsi di quel corpo svuotato della vita. 



Sono davanti alla finestra ed il mio sguardo è fisso, posato su di lui.
La mia anima è un tutt’uno con lui. Mi lascio scuotere dal vento, e resto ferma, immobile, insensibile.
         Quel corpo potrebbe essere il mio, forse lo è ed il guardarmi 
dall’alto, dall’esterno, da lontano, altro non è che la proiezione astrale di ciò che fui o che sarò.
         Sento il vento passare leggero e sollevare le mie piume, solleticandole e rendendole vive come erano quando volavo, come quando aprivo e scuotevo le mie ali, immense libere nel cielo.
         E dentro di me si risveglia il ricordo di voli e di cieli trascorsi e di visioni caleidoscopiche di paesaggi percorsi e doppiati nelle lunghe traversate e trasvolate
 
 
E con quello si risveglia anche il grande dolore, il grande rammarico, 
il grande rimpianto di quei cieli trascorsi e di quelle visioni trascorse, lontane, irraggiungibili e irripetibili
 
E’ morto qualcosa dentro di me. Si è fermato, si è addormentato ed è morta la mia voglia di vivere, la mia voglia volare.
E’ morta ed è racchiusa in quel corpo immobile, bellissimo e svuotato che resta insensibile in balia del vento, della pioggia, del sole, della luna, inerte a non lottare, a non desiderare, a non bramare più di volare, di andare, di respirare, rimuoversi.
E’ morto ed è lì davanti ai miei occhi, materiale e fisico, come il corpo di un gabbiano in putrefazione, a monito, a memoria, 
a preveggenza di ciò che è stato o che sarà.
 
 
 

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