"Cubani, festeggiamo la vittoria"
Merito di Francesco? Merito di Obama? Merito di Raul? Certamente anche di Oliver Stone, che ha mostrato col suo film-intervista su Fidel un volto del regime diverso da quello dipinto dall’encomiabile bloguera Yoani Sanchez che diceva di amare il suo paese ma ora è furiosa perché dopo più di mezzo secolo si è liberato della peggiore maledizione che l’ha colpito: l’embargo.
Ulteriormente inasprito nei ’90 proprio da un deputato di origine italiana, il famigerato presidente della commissione esteri del Congresso Usa, Torricelli (della targhetta col suo nome – ora posso confessarlo — mi impadronii una volta, mentre ero in visita ufficiale con una delegazione europea a Washington, e ne feci dono, come fosse uno scalpo, a Fidel!).
Merito, direi — se si è arrivati a questo esito — soprattutto del popolo cubano, della sua paziente tenuta, anche se «non è stato, né è tuttora, facil» (come lì si dice), attraverso difficoltà enormi, soprattutto quando crollò l’Urss da cui, per via dell’embargo, dipendeva in tutto e per tutto.
Dico merito perché questo popolo cubano ha patito, ha borbottato contro il suo regime, parecchi hanno cercato fortuna scappando in Florida, ma alla fin fine non si è mai prestato a chi avrebbe voluto insorgesse per affossare quanto era nato dalla sua rivoluzione.
Perché è bene ricordare che nel frattempo sono crollati tutti i regimi est-europei dell’orbita sovietica, che avevano polizie e servizi segreti ben più potenti di quelli dell’Avana e avevano anche alle spalle, quando il Muro è caduto, un’Unione sovietica ancora in condizione di frenare la contestazione, mentre a Cuba non è accaduto.
Perché chiunque sia stato in quell’isola sa bene che in carcere c’è proporzionalmente assai meno gente che negli Stati Uniti; che se i tanti, consueti, affollatissimi raduni dell’Avana per un concerto o per l’arrivo del papa o per i tanti festeggiamenti che in un paese così festaiolo come Cuba sono all’ordine del giorno non si sono trasformati in esplicita protesta non è perché la polizia l’ha impedito, bensì per via dell’orgoglio per la propria indipendenza dal grande vicino del Nord e per la rivoluzione che ne è stata l’artefice, e anche per il perdurante rispetto – e affetto – per Fidel.
Ci sono stati, certo, malumori, disaffezione, enormi disagi, ma il paese in buona sostanza ha tenuto. Nonostante tutti i suoi difetti, che avremmo certo voluto fossero corretti e non lo sono stati per errori, rigidità, e tutte le maledette assurde ossessioni dei socialismi storicamente realizzati.
Molti, bisogna ben dirlo, motivati da uno schematico ma comprensibile fanatico perseguimento dell’eguaglianza a tutti i costi del castrismo.
E perciò un monte di divieti per impedire che ogni piccola liberalizzazione creasse squilibri nel reddito, che chi opera nel turismo guadagnasse con le mance più del grande chirurgo.
Pesante è stata soprattutto la condizione degli intellettuali, e però negli ultimi tempi assai meno gravosa: dalla grande scuola di cinema cubana, a lungo presieduta da Garcia Marquez, sono usciti film straordinari; il migliore scrittore del paese, Leonardo Padura Fuentes, pubblica volumi non certo ortodossi e scrive persino sul nostro manifesto.
Al festival di Venezia quest’anno è stato proiettato un film di Cantet che racconta di un gruppo di amici, intellettuali appunto, che si ritrovano su una terrazza all’Avana in occasione della visita di un loro amico che molti anni prima aveva scelto di non tornare in patria.
Una pellicola molto cruda e inesorabile verso le persecuzioni e i divieti imposti alla creazione artistica. E però quando arrivano i titoli di coda si scopre che il film è stato girato con il sostegno della Icae, l’organismo statale cubano.
«Somos todos americanos»
ha detto Obama annunciando la fine dell’embargo.
Una frase a doppio senso: una riproposizione degli Stati Uniti come parte integrante di un continente unitario e omogeneo, che vuol nascondere i drammi, antichi e recenti, prodotti dalla «dottrina Monroe» (fra cui i tentativi di introdurre, anche in questo momento, in un’area così economicamente squilibrata ogni sorta di trattato di libero scambio ) ma anche una verità: se Cuba ha tenuto in questo mezzo secolo è anche proprio per via degli altri americani, quelli del Sud, che l’hanno sempre amata, così che nemmeno i loro governi più di destra hanno mai osato uniformarsi alla politica di Washington verso l’isola.
Troppo popolare, infatti, in America latina, la rivoluzione cubana.
È ben diversa la percezione di Cuba da quella parte del mondo rispetto a quella che se ne ha nel nostro occidente.
Da lì Cuba appare il paradiso: pochi beni di consumo, è vero, ma un ottimo sistema sanitario nazionale, un’elevatissima, universale e gratuita scolarizzazione, le città popolate all’ora di uscita dalle scuole di una moltitudine di bambini e adolescenti in divisa verde, simili a quelli che escono dai privatissimi istituti londinesi.
Povertà, sì, ma non miseria, non fame.
Non è poco in quel continente delle miserabili favelas.Proprio dalla nuova forza raggiunta da molti paesi del cono Sud è del resto venuta la spinta che ha probabilmente indotto Washington a cambiare linea. Anche concretamente: a pochi chilometri dall’Avana si sta costruendo, con il massiccio aiuto del Brasile, un immenso porto commerciale.
Servirà per accogliere le gigantesche navi-container che non possono attraccare alle sponde meridionali degli Stati Uniti perché queste mancano di fondali sufficientemente profondi. Fino ad oggi dovevano fare il giro per Panama fino al Pacifico, ora da Cuba potranno partire imbarcazioni più piccole per smistare il commercio transatlantico.
Vigente l’embargo, l’America non potrebbe approfittare del rilevantissimo taglio dei costi che il nuovo porto consentirà.
Non sarà tutto facile ora che l’embargo può finire: la suasiva invasione del mercato e il fascino dei beni di consumo di cui finora i cubani sono stati privi, i privilegi che potranno esser facilmente ottenuti da chi si farà nell’isola strumento di un’aggressione meno violenta ma più pericolosa di quella della Baia dei porci, creeranno non pochi guai.
Non ci resta che sperare nell’intelligenza della leadership cubana.
Per ora però brindiamo alla vittoria, perché di vittoria in una lunga guerra di resistenza, si tratta. Immagino che a Cuba oggi si faccia festa, i cubani sono bravissimi a far festa: ricordo la triste Mosca quando per la prima volta a una conferenza giovanile arrivò la prima delegazione della rivoluzione e tutti ci dicemmo: finalmente un socialismo allegro! Cuba ci ha affascinato anche per questo. Quanto a Obama, lo preferiamo quando è anatra zoppa. "Cubani, festeggiamo la vittoria" Merito di Francesco? Merito di Obama? Merito di Raul? Certamente anche di Oliver Stone, che ha mostrato col suo film-intervista su Fidel un volto del regime diverso da quello dipinto dall’encomiabile bloguera Yoani Sanchez che diceva di amare il suo paese ma ora è furiosa perché dopo più di mezzo secolo si è liberato della peggiore maledizione che l’ha colpito: l’embargo.
Ulteriormente inasprito nei ’90 proprio da un deputato di origine italiana, il famigerato presidente della commissione esteri del Congresso Usa, Torricelli (della targhetta col suo nome – ora posso confessarlo — mi impadronii una volta, mentre ero in visita ufficiale con una delegazione europea a Washington, e ne feci dono, come fosse uno scalpo, a Fidel!).
Merito, direi — se si è arrivati a questo esito — soprattutto del popolo cubano, della sua paziente tenuta, anche se «non è stato, né è tuttora, facil» (come lì si dice), attraverso difficoltà enormi, soprattutto quando crollò l’Urss da cui, per via dell’embargo, dipendeva in tutto e per tutto.
Dico merito perché questo popolo cubano ha patito, ha borbottato contro il suo regime, parecchi hanno cercato fortuna scappando in Florida, ma alla fin fine non si è mai prestato a chi avrebbe voluto insorgesse per affossare quanto era nato dalla sua rivoluzione.
Perché è bene ricordare che nel frattempo sono crollati tutti i regimi est-europei dell’orbita sovietica, che avevano polizie e servizi segreti ben più potenti di quelli dell’Avana e avevano anche alle spalle, quando il Muro è caduto, un’Unione sovietica ancora in condizione di frenare la contestazione, mentre a Cuba non è accaduto.
Perché chiunque sia stato in quell’isola sa bene che in carcere c’è proporzionalmente assai meno gente che negli Stati Uniti; che se i tanti, consueti, affollatissimi raduni dell’Avana per un concerto o per l’arrivo del papa o per i tanti festeggiamenti che in un paese così festaiolo come Cuba sono all’ordine del giorno non si sono trasformati in esplicita protesta non è perché la polizia l’ha impedito, bensì per via dell’orgoglio per la propria indipendenza dal grande vicino del Nord e per la rivoluzione che ne è stata l’artefice, e anche per il perdurante rispetto – e affetto – per Fidel. Ci sono stati, certo, malumori, disaffezione, enormi disagi, ma il paese in buona sostanza ha tenuto.
Nonostante tutti i suoi difetti, che avremmo certo voluto fossero corretti e non lo sono stati per errori, rigidità, e tutte le maledette assurde ossessioni dei socialismi storicamente realizzati.
Molti, bisogna ben dirlo, motivati da uno schematico ma comprensibile fanatico perseguimento dell’eguaglianza a tutti i costi del castrismo.
E perciò un monte di divieti per impedire che ogni piccola liberalizzazione creasse squilibri nel reddito, che chi opera nel turismo guadagnasse con le mance più del grande chirurgo. Pesante è stata soprattutto la condizione degli intellettuali, e però negli ultimi tempi assai meno gravosa: dalla grande scuola di cinema cubana, a lungo presieduta da Garcia Marquez, sono usciti film straordinari; il migliore scrittore del paese, Leonardo Padura Fuentes, pubblica volumi non certo ortodossi e scrive persino sul nostro manifesto. Al festival di Venezia quest’anno è stato proiettato un film di Cantet che racconta di un gruppo di amici, intellettuali appunto, che si ritrovano su una terrazza all’Avana in occasione della visita di un loro amico che molti anni prima aveva scelto di non tornare in patria. Una pellicola molto cruda e inesorabile verso le persecuzioni e i divieti imposti alla creazione artistica. E però quando arrivano i titoli di coda si scopre che il film è stato girato con il sostegno della Icae, l’organismo statale cubano. «Somos todos americanos»ha detto Obama annunciando la fine dell’embargo. Una frase a doppio senso: una riproposizione degli Stati Uniti come parte integrante di un continente unitario e omogeneo, che vuol nascondere i drammi, antichi e recenti, prodotti dalla «dottrina Monroe» (fra cui i tentativi di introdurre, anche in questo momento, in un’area così economicamente squilibrata ogni sorta di trattato di libero scambio ) ma anche una verità: se Cuba ha tenuto in questo mezzo secolo è anche proprio per via degli altri americani, quelli del Sud, che l’hanno sempre amata, così che nemmeno i loro governi più di destra hanno mai osato uniformarsi alla politica di Washington verso l’isola. Troppo popolare, infatti, in America latina, la rivoluzione cubana. È ben diversa la percezione di Cuba da quella parte del mondo rispetto a quella che se ne ha nel nostro occidente. Da lì Cuba appare il paradiso: pochi beni di consumo, è vero, ma un ottimo sistema sanitario nazionale, un’elevatissima, universale e gratuita scolarizzazione, le città popolate all’ora di uscita dalle scuole di una moltitudine di bambini e adolescenti in divisa verde, simili a quelli che escono dai privatissimi istituti londinesi.
Povertà, sì, ma non miseria, non fame. Non è poco in quel continente delle miserabili favelas.Proprio dalla nuova forza raggiunta da molti paesi del cono Sud è del resto venuta la spinta che ha probabilmente indotto Washington a cambiare linea. Anche concretamente: a pochi chilometri dall’Avana si sta costruendo, con il massiccio aiuto del Brasile, un immenso porto commerciale.
Servirà per accogliere le gigantesche navi-container che non possono attraccare alle sponde meridionali degli Stati Uniti perché queste mancano di fondali sufficientemente profondi. Fino ad oggi dovevano fare il giro per Panama fino al Pacifico, ora da Cuba potranno partire imbarcazioni più piccole per smistare il commercio transatlantico.
Vigente l’embargo, l’America non potrebbe approfittare del rilevantissimo taglio dei costi che il nuovo porto consentirà.
Non sarà tutto facile ora che l’embargo può finire: la suasiva invasione del mercato e il fascino dei beni di consumo di cui finora i cubani sono stati privi, i privilegi che potranno esser facilmente ottenuti da chi si farà nell’isola strumento di un’aggressione meno violenta ma più pericolosa di quella della Baia dei porci, creeranno non pochi guai.
Non ci resta che sperare nell’intelligenza della leadership cubana. Per ora però brindiamo alla vittoria, perché di vittoria in una lunga guerra di resistenza, si tratta.
Immagino che a Cuba oggi si faccia festa, i cubani sono bravissimi a far festa: ricordo la triste Mosca quando per la prima volta a una conferenza giovanile arrivò la prima delegazione della rivoluzione e tutti ci dicemmo: finalmente un socialismo allegro! Cuba ci ha affascinato anche per questo.
Quanto a Obama, lo preferiamo quando è anatra zoppa.
Luciana Castellina